Presentazione

Il percorso artistico di Valeria

Armostrong

L’opera omnia di Valeria attraversa decenni e stili che mutano con la maturità.
Gli INIZI sono caratterizzati da figure di suburbio solitarie, umiliate e offese, anime ferite o ribelli con pennello naif di colore crudo con gusto espressionista e un sottofondo di protesta. I simboli di oppressione come l’inferriata e la forca, alludono ad una condizione umana e ad un contesto storico drammatico. Anche la figura di Armstrong con la sua tromba è un grido sulla negritudine. Nella serie dei Pescatori c’è la visione della fatica dei pescatori e delle loro famiglie. Il colore con i grigi e neri ha una forte funzione narrativa. In questo periodo Valeria si dedica anche ad illustrare a china alcuni episodi del romanzo di Italo Calvino che ha come sfondo la Resistenza, “II sentiero dei nidi di ragno” Pin, il ragazzo protagonista con una vita familiare difficile, incontra i partigiani. Cerca e trova l’amicizia in un mondo di uomini in guerra clandestina, scopre le luci e le ombre. Le illustrazioni evidenziano con sintetica poesia questi contenuti. Disegnano con efficacia e segno incisivo l’esile Pin contrapposto al grosso partigiano. le figure dei fascisti repubblichini e altre scene tratte dagli episodi del libro. La serie di Nudi femminili non è solo un esercizio di abilità grafica ma un risultato elegante e armonico di equilibri segnici e di colore dove il bianco e nero e il rosso creano consistenza e significati alla composizione.

La città vissuta durante l’infanzia e la giovinezza segnano indelebilmente l’immaginario di Valeria. L’immagine di VENEZIA viene trasmessa con segni dinamici e inquieti che ricordano l’incessante movimento dell’acqua. Una città come specchiata nei rii, tramutata in architettura fantastica e orientale. I capannoni di Marghera ci ricordano la Venezia operaia e industriale, un mondo a sé di strutture misteriose e minacciose ma anche baluardo di lotte per i diritti. Valeria si ispira anche alla grande alluvione del ‘51 del Delta padano a Rovigo e nel Cavarzerano dipingendo con vigore il dramma dei paesaggi sommersi e di un’umanità sofferente in fuga.

Venezia onirica

Il trasferimento dall’onirica Venezia alla METROPOLI milanese genera tormento nell’animo dell’artista che dipinge la vita collettiva a Milano negli anni sessanta e settanta. Forme spettrali di facciate e città notturne ispirate dalla cronaca, angosce e disperazione di monadi imprigionate nei formicai. L’inferno della metropoli. Le storie individuali circondate dal buio evocato dall’inchiostro nero si alternano a visioni solcate dal giallo delle luci psichedeliche. I caseggiati divengono protagonisti, simboli di prigionia, come i volti in cui si riflette il malessere.

Murder veneziano

In quegli stessi anni di rivolte studentesche e rivendicazioni di diritti lavorativi e di genere, Valeria precorre i tempi trattando l’argomento del femminicidio. La rappresentazione della DONNA come vittima della violenza, ci mostra in varie forme i femminicidi già negli anni 60-70. La composizione in bianco e nero delle bambole rotte è una metafora di grande forza espressiva. I volti femminili, travolti e sballottati in una corrente urbana di case e ponti, e i corpi immersi nel bianco e nero solcato da onde verdastre, sono una forte testimonianza, un grido di protesta. Il volto pensieroso di una donna svela la sua incertezza e prigionia nella città, ma c’è anche la dimensione del sogno, nell’ isola felice dai colori chiari, con i cavallini in corsa, che esprimono l’aspirazione alla libertà.

Nel gruppo di opere denominato HOMO HOMINI LUPUS Valeria si mostra radicata nel suo tempo, denso di radicali contrapposizioni e speranze. Con i disegni della Contestazione (anni 80 e 70) descrive la dialettica sociale come un grande incendio di fiamme e bandiere e gli anni di piombo con allegorie aggressive, oggetti puntati, mossi da una logica quasi automatica. Nelle rappresentazioni gestuali, i cavalli sono le forze giovanili di libertà e le forbici e i cavatappi quelle della repressione. Entrano nel disegno anche fatti clamorosi della cronaca politica degli anni 60 e 70, come la morte di Piero Bruno, ucciso durante una manifestazione da un poliziotto in borghese. Nella serie ispirata dalla Guerra del Golfo entra il tema bellico assillante, il suo nonsenso, con un segno graffiante e un effetto di realtà dominata dalla morte, dal silenzio luttuoso, dal rosso del sangue e il grigio delle rovine. Il crollo delle utopie nei Castelli di carta, è un altro motivo ispirativo. Franano nel mondo i meccanismi autoritari. I capi sono raffigurati come direttori d’orchestra, come mani guantate che dirigono i concerti sociali. I sudditi appaiono come figurine di carta, vittime di illusioni e manipolazioni.

Le SCALE raffigurano nella loro ambigua sospensione nel vuoto e nella solitudine geometrica la razionalità, giunta al traguardo del dubbio, l’automatismo senza meta.

I RITRATTI prendono forma onirica. Il volto di bambino dallo sguardo allucinato, quello dell’amico e della sua storia, quello che contiene meandri di vita, nascono dalla memoria dalle emozioni e dalla fantasia. Il grido di rabbia nella città disegna il malessere di un personaggio tormentato, tra figure ugualmente sofferenti.

Nelle VISIONI ONIRICHE i paesaggi dell’isola di Aran, nati da suggestioni filmiche e letterarie, sviluppano su grandi tele il rapporto fra l’uomo e il mare, la presenza della donna accanto al bambino, le battaglie quotidiane dell’uomo sulle imbarcazioni, nelle tempeste del mare e della vita. I Mostri sono fantasmi dalle forme di animali, proposti in stile fiabesco quasi nel tentativo di esorcizzarli. Sono gli incubi quotidiani, partoriti dalla paura, dalle incertezze di un mondo pieno di conflitti, sono quelli che ci angustiano nel sonno. Nei NAS (acronimo per natura, arte e spazio) appare il sogno del futuro. L’intuizione fantastica, etica e fantascientifica proietta la natura in nuovi mondi nello spazio. Il disegno ci offre pianeti misteriosi, canoe cariche di alberi, trasloco della vita in altre mete, con una immaginazione visionaria, fatta segno agile e nervoso.

Gioia in città

Nella produzione di Valeria c’è spazio anche per temi come la GIOIA quella ludica del luna park e quella dei concerti giovanili, colti nei momenti inebrianti. Segno e colore intrecciati costruiscono un’atmosfera viva e coinvolgente, col ricamo dinamico delle curve dell’ottovolante intorno a volti femminili e con l’evocazione del clima musicale.

Il tema dell’EROS, linfa della vita, scaturisce con dolcezza e con gioia naive in una festa di colori, dai volti compenetrati nel bacio o in attesa di esso tra occhi chiusi. La sospensione è dialogo primordiale. L’abbraccio della coppia libera e nuda in seno alla natura non è solo visione iconica da luna park, ma emozione pura e immediata.

L’interpretazione della NATURA è fantastica e simbolica. Lo stormire del verde nel paesaggio trasparente di Lanke, il fogliame misterioso, denso di colore e di vita dell’albero, la danza dei tronchi leggeri nel giardino, il richiamo lirico e musicale dell’intrico del bosco, le geometrie delicate dei filari arborei, i cancelli su paesaggi incantati sono capitoli di un grande poema ecologico.

Mostre personali 1945-2001

1945 • Galleria dell’Arco,Venezia
1946 • Piccola Galleria,Venezia
1950 • Bevilacqua La Masa,Venezia
1953 • Galleria Bianco e Nero,Treviso
1954 • Bevilacqua La Masa,Venezia
1958 • Bevilacqua La Masa,Venezia
1959 • Galleria Del Pozzetto, Padova • Galleria Delle Ore, Milano
1960 • Bevilacqua La Masa,Venezia
1963 • Galleria Del Mulino, Milano
1967 • Galleria Arte Centro, Milano
1970 • Personale, Calice Ligure
1971 • Biblioteca Comunale Caronno Pertusella
1971 • Galleria Fiori Scuri, Milano
1972 • Galleria Chiara, Milano
1974 • First National Bank, Milano
1976 • C.I.C., Avezzano
1977 • Galleria Il Salotto, Como • Studio Miani, Roma
1978 • Studio Miani, Roma • C.I.C., Avezzano
1979 • Centro Culturale Brasiliano, Milano
1980 • Cityfin, Roma
1981 • Little Gallery Vienna, Milano
1982 • Galleria Il Mercante, Milano
1984 • Centro Problemi Donna, Milano 1985 • Cityfin, Firenze
1988 • Galleria Nove Colonne, Bergamo 1989 • Cityfin, Roma
1994 • Cityfin, Roma
1996 • Om Cafè Gallery, Berlino • B.A.H., Berlino
1997 • Scoletta dei Calegheri,Venezia
1999 • Velabro Club, Roma
2000 • Sonderbar Cafè Gallery, Berlino • La Invierna Cafè Gallery Leganés, Madrid
2001 • Maison d’Italie, Parigi • Galleria Kuckucksnest, Berlino
2002 • Chapeau Theater, Berlino

Copertina catalogo d'arte e poesia intitolato Parole e immagini

Copertina della pubblicazione Parole e Immagini,
dedicata alle arti espressive delle gemelle D’Arbela.

Alchimie veneziane

Giovanni BIANCHI

Copertina del catalogo della mostra a Venezia, presso Ca’ Pesaro sede della Galleria internazionale d’Arte Moderna
Catalogo mostra Venezia, Ca’ Pesaro Galleria internazionale d’Arte Moderna

La mostra Alchimie Veneziane è, di fatto, una piccola antologica dedicata all’opera di Valeria D’Arbela, incentrata sul tema della città di Venezia. La città lagunare non è solo un soggetto che ricorre con continuità nei lavori di Valeria ma è testimone dello svolgersi della sua vita che incessantemente si rapporta con questa città. Ai grandi cambiamenti che coinvolgono l’arti- sta corrisponde un nuovo rapporto con Venezia che si tra- duce in una diversa rappresentazione: all’inizio è la città vissuta, scoperta e amata – dove Valeria acquista coscienza di sé – poi diviene città della memoria, abitata da fantasmi, rifugio di ricordi e poi ancora città generatrice di sogni. Per la storia umana e artistica di Valeria fondamentali sono gli anni passati a Venezia che coincidono con l’infanzia, l’adolescenza e la prima maturità. Nata a Firenze nel 1930, Valeria D’Arbela si trasferisce con la famiglia prima a Verona, nel 1936, e poi a Venezia nel 1937 dove il padre, Felice D’Arbela, medico internista, viene nominato primario all’Ospedale Civile. La prima formazione artistica e letteraria avviene all’interno della famiglia e si deve in gran parte alla figura della madre, Marcella Mei Gentilucci. Valeria e la sorella gemella Serena possono contare in casa su di una ricca e fornita biblioteca dove sono raccolti volumi che spaziano dalla letteratura alla poesia, dalla storia alla filosofia, dalla scienza alle arti figurative. Sfogliando riviste e libri d’arte rimane particolarmente colpita dalle opere di «Van Gogh, Gauguin, Toulouse Lautrec e poi dai Fauves e dai Cubisti»1.

In compagnia della madre visita i musei cittadini, le Biennali Internazionali d’Arte, ed inizia a frequentare la galleria del Cavallino, diretta da Carlo Cardazzo, che nell’aprile del 1942 aveva iniziato la sua programmazione espositiva presentando opere dei maggiori artisti italiani del ’900 come Campigli, Morandi, De Pisis, Casorati, Sironi, Scipione. Nei primi anni Quaranta si reca spesso a Burano dove vede al lavoro i pittori “lagunari” e conosce Pio Semeghini, Carlo Dalla Zorza, Mario Disertori, Mario Vellani Marchi. In questi anni Valeria dunque si forma “vivendo” la città, e scoprendo, con grande curiosità, tutto quello che questa può offrirle: incontri con artisti2, vivace attività culturale, possibilità di muoversi liberamente, sfidando le severe restrizioni imposte dai genitori, anche al di fuori delle mura del “suo” palazzo sul Canal Grande, tra calli, campi e campielli a contatto diretto con la gente. Siamo negli anni di guerra, ma, come è noto, Venezia veniva risparmiata dai bombardamenti e in città non si era interrotta la vita culturale e artistica. Ma anche in questa isola “felice” la guerra e la pesante pressione del regime si facevano sentire; bombardamenti in terraferma, arresti e retate erano all’ordine del giorno. Valeria partecipa in prima persona al passaggio da una cultura viva pur sotto la morsa della guerra e “regolata” dal regime nazi-fascista a quell’atmosfera tumultuosa, ricca di generose illusioni che caratterizzò il periodo – purtroppo breve – che seguì immediatamente la fine della guerra e il ritorno alla libertà e alle forme democratiche. Autodidatta, già nel 1943 aveva iniziato a dipingere; ma bisogna aspettare il 1945 perché Venezia si accorga di avere una nuova, giovane artista.

Esordio precoce e esplosivo quello di Valeria d’Arbela che appena quindicenne, nel dicembre del 1945, presenta al pubblico i suoi lavori in una mostra personale organizzata dal Centro Giovanile di Unità della Cultura, meglio noto come Arco3, che aveva la sua sede organizzativa e espositiva al piano terra del Palazzo delle Prigioni, a fianco del Palazzo Ducale. Con il preciso obiettivo di avvicinare alla “cultura” anche i ceti popolari di solito esclusi e emarginati, l’Arco si fa promotore di iniziative interdisciplinari occupandosi non solo di arte figurativa ma anche di musi- ca, poesia, teatro e letteratura. È in questo clima effervescente che si definiscono la formazione culturale, l’impegno politico e la vocazione artistica di Valeria e della sorella Serena4.

Inaugurata il 9 dicembre del 19455, la mostra di Valeria D’Arbela infiammò le cronache d’arte veneziane. La giovanissima pittrice presentava trenta piccole opere ed era introdotta in catalogo da versi di Charles Baudelaire (tratti da “Les Fleurs du mal” – CXI Femmes damnées) e da un partecipato testo di Luigi Ferrante6, che metteva in risalto il carattere spontaneo ed emotivo, ma profondo, della pit- tura della D’Arbela che «ha certo visto e assorbito con quella prontezza tipica nei giovanissimi molti dipinti di autori noti dell’arte contemporanea (qualcuno dirà Matisse – Van Gogh – De Pisis), ma la presenza di tutti questi elementi non si sovrappone all’immagine ma vi partecipa perché sentita sinceramente»7.

I dipinti realizzati con una tecnica immediata e “primitiva”, e con colori accesi e aggressivi, mettono in evidenza la loro forte caratterizzazione espressionista. I soggetti sono personaggi desolati e malinconici, protagonisti di una realtà dolorosa, più immaginata che vissuta, raffigurata con la sincera partecipazione di una adolescente. La mostra suscitò vivaci polemiche e l’età della giovane pittrice ebbe influenza, in generale, sui giudizi della critica: «È facile trovandosi di fronte alle manifestazioni artistiche di un’adolescente gridare al prodigio e plaudire al sole che è sorto senza l’alba: difficile è provarlo».8

Una posizione nettamente a favore della D’Arbela è quel- la espressa da Giuseppe Marchiori che sembra voler mettere fine ad ogni controversia: «Altra mostra, organizzata dalla “Galleria dell’Arco”, quella della pittrice quindicenne Valeria D’Arbela, che è stata un po’ lo scandalo dell’annata, poiché gli uomini maturi diffidano della precocità e non amano le “rivelazioni” di questo genere. Infatti Valeria è un curiosissimo esempio d’ingenuità e di cultura, d’inesperienza e di arditezza: una espressione del nostro tempo amaro e geniale. Il mondo di questa ragazza è deciso, dalla parte del male; ma espresso con un candore che lo trasferisce in un paradisiaco giardino infantile. Valeria gioca sul gusto del colore, secondo un’aggiornata concezione espressionistica delle forme, e crea così paradossali figure inquadrate in una curiosa dimensione poetica. Gli uomini seri hanno protestato perché Valeria è piaciuta anche a noi che non abbiamo pregiudizi. Tanto peggio per gli uomini seri, che potevano risparmiare il loro livore per occasioni più impegnative. Le figure di Valeria non vanno discusse: si rifiutano o si accettano per la loro dichiarata innocenza. E chi non le ama o non le capisce o le vuole assumere a simbolo di un’assurda polemica mostra di avere per lo meno poco spirito. Dirò di più: le figure di Valeria mi divertono. Lo so: questa non è un’affermazione critica, ma alla fin dei conti ho bene il diritto di divertirmi anch’io, e di dimenticare, nell’innocente mondo di Valeria, le sciocchezze meta- fisiche di tanta gente pensosa, tremendamente inutile e sommariamente noiosa. […]».9

A questa prima personale seguono altre mostre importanti, tra cui quella allestita insieme a Sandro Sergi nel dicembre del 1946 nelle salette della Piccola Galleria, diretta da Roberto Nonveiller. Verso la fine degli anni Quaranta Valeria con la precisa volontà di affinare e irrobustire la sua formazione artisti- ca, spontanea e istintiva, segue un corso di chiaroscuro e disegno plastico presso lo studio di un architetto, e nel 1949 frequenta la scuola libera del nudo tenuta da Armando Pizzinato all’Accademia di Belle Arti. In questi stessi anni volendo superare i suoi “fantasmi letterari e onirici”10, aderisce al realismo, non rinunciando alla sua carica espressionista. L’artista inizia a dipingere usando la china, tecnica che poi privilegerà. Nei primi anni Cinquanta, preso il diploma di maestra, inizia ad insegnare nell’isola di Pellestrina, la sua “Tahiti”, dove passa «gran parte della giornata insegnando ai bambini, cogliendo nuovamente quei momenti e quei gesti di gente semplice, di natura marina intensa, di colori di barche, di reti, di pescatori infreddoliti».11

Sono di questo periodo lavori dipinti a china che “regi- strano” una realtà di povertà e di duro lavoro. Una realtà non più immaginata ma vissuta direttamente dove i protagonisti sono miseri pescatori dal volto segnato e malinconico, madri lavoratrici con bambini infagottati. Alcune di queste opere sono esposte nella personale organizzata nell’estate del 1954 all’Opera Bevilacqua La Masa; in catalogo Armando Pizzinato sottolinea come questi pescatori rappresentino «per la pittrice, il suo contatto umano, di solidarietà con l’uomo, il suo amore per un popolo laborioso che lotta e sa resistere, e sono la sua denuncia verso la società».12

Valeria rappresenta anche solitari barconi abbandonati nello “squero”13 e Venezia, di cui offre una visione notturna. Rappresentata con la china nera, con un segno fitto e serrato, la città si presenta deserta e scura, dove balenano i “vuoti” bianchi e luminosi dei “masegni” e delle finestre. Gli spazi della città si sovrappongono, si spezzano, si moltiplicano evocandone la struttura labirintica e suggerendo un’atmosfera misteriosa e angosciata. Come nota Serena D’Arbela, «è certamente una Venezia “minore”, ma la più vera, dove respiro, luce e spazio sono come una assurda sorpresa al termine di sottoportici oscuri, di tortuosi dedali di calli, tra file di case cadenti sotto sproporzionati camini».14

Lo sguardo è rivolto anche alla Venezia “industriale” e operaia, la Venezia di Porto Marghera dove minacciose e tetre incombono le architetture delle fabbriche. Grazie alla sua indomabile fantasia, la ricerca espressiva di Valeria si affranca dalla necessità di una ripresa “puntuale” della realtà per recuperare una dimensione libera e surreale che le è più affine.

Nel 1962 Valeria si trasferisce a Milano; il periodo che segue «è contrassegnato dallo sconvolgimento, dovuto al passaggio da una città di sogno e di cultura come Venezia, piccolo centro di lavoro e raggruppamento quasi familiare alla metropoli milanese, all’anonimato delle strade, al vis- suto di massa in ogni momento urbano. Si verifica una scoperta individuale della città, al di là del contesto esterno e pesante».15
Il rapporto con la metropoli milanese comporta una nuova visione della città di Venezia che si presenta ora come luogo del ricordo. Questo risulta evidente in Addio a Venezia (1973) dove un volto femminile con grandi occhi spalancati è un tutt’uno con la città che viene evocata/ricordata. È una Venezia particolare che vede la commistione di simboli e luoghi reali, trasfigurati dal ricordo. Sul fondo si riconosce il Ponte dei Sospiri che collega il Palazzo Ducale alle Prigioni, dove, come abbiamo ricordato, Valeria aveva iniziato la sua appassionata avventura nel mondo dell’arte.

Sulla destra si intravede una serie di grandi cavatappi16 che simboleggiano l’elemento negativo e repressivo della società nei confronti della contestazione giovanile che già si era manifestata negli anni dell’Arco.
Nel 1976 Valeria si stabilisce a Roma dove risiede fino al 2002, anno in cui viene a mancare. Dagli anni Ottanta si ripropone con forza la visione di Venezia, raffigurata come una città «riflessa nella mente insieme al flusso dei ricordi sfaccettati come in un caleidoscopio».17
Venezia viene “raccontata” con innumerevoli segni dinamici e inquieti che ricordano l’incessante movimento dell’acqua che la percorre e la circonda. La città, sospesa tra il mare e il cielo, si frantuma e si ricostruisce secondo multiformi prospettive suggerite dalle sensazioni che si moltiplicano e si sovrappongono nella memoria. I segni neri acquistano colore e luminosità, danzano e divengono arabeschi per illustrare ricordi felici che fanno parte del passato, ma che ritornano vivi quando riemergono. La città prende forma sul foglio seguendo un flusso poeti- co a volte continuo, a volte sincopato e spezzato che sembra ricordare le parole di Sergio Bettini quando sottolineava come Venezia fosse orientata «verso una sintassi antigeometrica, antiprospettica – o, a dire meglio – verso un linguaggio composto a grado di una geometria provvisoria e speciosa, che moltiplica, intreccia, decompone, ricostruisce».18
Nelle sue opere, caratterizzate da un’atmosfera magica e onirica, Valeria come un alchimista trasforma continua- mente la città, la ricorda, la sogna, la ripensa, la “reinventa”; è una città che si specchia nell’acqua e si raddoppia; è una città dall’architettura fantastica e orientale; è una città che racchiude ricordi; è una città che genera sogni.

Nelle grandi tele eseguite nel 2000, realizzate con la tecnica ad olio, Valeria ripropone una Venezia già affrontata nei lavori a china; non c’è colore, tutto è risolto con i “non” colori bianco e nero che mettono ancor più in rilievo la composizione formale. La loro grande dimensione ci permette di entrare negli spazi del quadro e di perderci nella città, osservando i suoi palazzi, percorrendo ponti, calli, e le vuote “fondamente”. Con questa mostra Valeria torna dunque a Venezia, la città che ha segnato l’inizio del suo cammino nella vita e nell’arte. L’arte che, come ricorda lei stessa, «è stata la mia salvezza, sempre, la mia isola felice, il mio specchio, il mio paradiso, il mio dialogo con gli altri».19

Note
1 Appunti per un’autobiografia, manoscritto di Valeria D’Arbela.
2 Valeria conosce moltissimi artisti veneziani tra cui Favai, Carena, De Pisis,Vedova, Hollesch, Santomaso, Pizzinato.
3 Sull’Arco si rimanda a Antonella Clara, La stagione dell’Arco, tesi di laurea, relatore prof.ssa Maria Mimita Lamberti, Università degli Studi di Udine, a.a. 1993-1994; Giovanni Bianchi, Arte a Venezia: 1938-1948. Fermenti e segnali di rinnovamento, tesi di dottorato di ricerca in Storia dell’Arte, tutor prof.ssa Giuseppina Dal Canton, Università Ca’ Foscari di Venezia, a.a. 2003-2004, pp. 361-421. Si ricorda che in occasione della 945a mostra del Cavallino (26 gennaio – 12 febbraio 1985), dedicata all’Arco, Federico Bondi scrisse un testo significativo.
4 Se Valeria indirizza il suo interesse verso la pittura, Serena lo indirizza invece verso la prosa e la poesia; partecipa al Convegno di giovani poeti e prosatori organizzato dall’Arco nelle sale dell’Ateneo Veneto il 18 gennaio 1946 (in quella occasione furono lette poesie di Giovanni Barbini, Antonio Barolini, Giovanna Bemporad, Giacomo Cacciapaglia, Serena D’Arbela, Luigi Ferrante, Carlo Hollesch, Milena Milani, Arnaldo Momo, Pier Paolo Pasolini, Renato Piva, Giovanni Poli, Andrea Zanzotto) e anche al Secondo Convegno di giovani poeti dell’Arco, tenutosi al Conservatorio Benedetto Marcello il 21 giugno del 1946. Gli anni dell’Arco sono ricordati da Serena D’Arbela nel volume Siete proprio veri?, Tracce, Pescara 2000.
5 Erano esposte le seguenti opere: Il marinaio, L’uomo coi girasoli, Donna con vaso, Cortigiana, L’uomo semplice, La vecchietta dei giardini, Il guardiano del manicomio, Il Dottor Faust, Un prete, In attesa d’andare in scena, Trio russo, L’uomo stanco, Gruppo di tre, Gli zingari, Donna coi capelli rossi, Il bar giallo, In pellegrinaggio, A teatro, Il sogno, Malavita, La lite, Fanciulla tra i libri, Davanti al caffè, Donna dal fiore, Bar verde, Cerimonia solenne, Ballerine, Bionda dagli occhi bistrati, Donne in cerchio, Il figlio di nessuno.
6 Nel 1952 Valeria sposerà Luigi Ferrante, professore, critico d’arte e autore di saggi di teatro, da cui avrà tre figli: Marina, Dante e Simonetta.
7 Luigi Ferrante, presentazione in L’Arco n.4, Galleria d’Arti Figurative del Centro Giovanile di Unità della Cultura, Ponte della Paglia – Venezia – Palazzo delle prigioni, catalogo della Mostra personale della pittrice quindicenne Valeria D’Arbela.
8 Se., Valeria D’Arbela alla Galleria dell’Arco, ne Il Giornale delle Venezie, 18/19 dicembre 1945
9 Giuseppe Marchiori, Venezia: una mostra postuma di Gino Rossi e mostre varie, in Emporium, febbraio 1946, LII, pp.93-95.
10 Appunti per un’autobiografia, manoscritto di Valeria D’Arbela.
11 Appunti per un’autobiografia, manoscritto di Valeria D’Arbela.
12 Armando Pizzinato, in Valeria D’Arbela, catalogo della mostra, Opera Bevilacqua La Masa,Venezia, 19 giugno – 2 luglio 1954.
13 Anna Pallucchini, in Valeria D’Arbela, catalogo della mostra, Galleria delle Ore, Milano, 10 gennaio 1959.
14 Serena D’Arbela, Valeria D’Arbela, catalogo della mostra, Opera Bevilacqua La Masa,Venezia, dal 24 settembre – 7 ottobre 1960. Le opere esposte erano esclusivamente dedicate a Venezia.
15 Appunti per un’autobiografia, manoscritto di Valeria D’Arbela.
16 Il cavatappi inteso come trapano capace di perforare la mente dei giovani ricorre in molte opere di Valeria realizzate negli anni della contestazione, tra il 1968 e i primi anni Settanta. Contrapposta al cavatappi è l’immagine del cavallo che scalpita verso un futuro nuovo.
17 Appunti per un’autobiografia, manoscritto di Valeria D’Arbela.
18 Sergio Bettini, Forma di Venezia (lezione inaugurale dei Corsi Estivi dell’anno accademico 1958-1959 tenuta in Bressanone il 26 luglio 1959), Padova 1960, p.25.
19 Lettera a papà di Valeria D’Arbela.

La metropoli-falansterio

Giuseppe MARCHIORI

Da molti anni Valeria D’Arbela continua a disegnare accanitamente rubando le ore al riposo notturno, spinta dalla volontà di tradurre in immagini (e di riconoscerli così) i fantasmi del proprio mondo interiore. Fin da bambina Valeria aveva manifestato una vocazione grafica originale e, pur nella naturalezza ingenua della visione, con allusioni piuttosto inconsuete a caratteri di costume e a tipi di una iconografia impietosa, vagamente espressionistica. C’era insomma, nella bimba precoce, una esigenza critica nella rappresentazione ai suoi occhi, obbiettiva di un mondo di figure desolate o drammatiche, che sembrava- no, in parte, uscire dalle pagine dei romanzi americani tra- dotti nel dopoguerra (Faulkner, Hemingway, Caldwell Saroyan, Steinbeck).
Che cosa poteva aver visto Valeria, al di fuori di se stessa e della propria natura particolarmente emotiva?
In quei tempi la cultura artistica non aveva il libero corso e la facile diffusione di oggi. Sono passati da allora – poco più, poco meno – diciotto anni e tutto é profondamente mutato. Ritrovare oggi Valeria, con la stessa volontà di critica e con la stessa capacità di espressione, non è una sor- presa per me, che ho avuto sempre fiducia in lei e nel suo talento di artista. Si trattava piuttosto di vedere quale svolgimento avrebbe avuto l’arte di Valeria, nel passaggio dal mondo delle immagini infantili a quello della maturità. “È il solito caso d’involuzione artistica del fanciullo prodigio?” mi domandavo con qualche inquietudine.
Valeria di tanto in tanto appariva in qualche mostra con pitture e disegni di un dichiarato impegno sociale, corrispondente alla sua vocazione e alla sua scelta etica. I temi erano quelli comuni all’ondata neorealistica del tempo, talora interpretati in modo generico, talora invece risolti con novità di accenti grafici e pittorici.
L’interesse di Valeria si dirigeva verso gli eventi più significativi del tempo, nella ricerca di far coincidere le immagini disegnate o dipinte con una realtà, alla quale sentiva di partecipare umanamente, con un vero calore dell’anima. C’era, sì, la sua verità in quel modo di esser partecipe e solidale, ma il rapporto mancava con le origini, con la inquietante visione degli anni infantili.
Il rapporto s’è ristabilito, soprattutto nei disegni eseguiti, tra il ’60 e il ’63, che fissano le impressioni e le reazioni della donna di fronte a tanti fatti e aspetti della vita moderna. Alla descrizione oggettiva succede ora l’intervento di una personalità più decisa, che esprime dubbi, angosce, incubi dal segreto dell’anima, ispirata dalla visione amara della vita collettiva della città, che si dilata e schiaccia e divora gli uomini col suo ritmo affannoso e disumano. Una volta si diceva della “metropoli tentacolare”, con una immagine visiva, che ebbe molto successo, perché dava l’idea dell’uomo afferrato dai tentacoli di un orribile mostro e reso schiavo dal progresso tecnico e meccanico senza speranza alcuna di salvezza. Ma Valeria non disegna mostri, alla maniera dei surrealisti: evoca invece atmosfere spettrali e sinistre di facciate e di vie tutte uguali, di città notturne, che respirano l’angoscia e la disperazione degli uomini costretti a vivervi come prigionieri di un incubo.
E l’incubo è lo choc, che la metropoli-falansterio, rumorosa, assordante, agitata da una febbrile corsa al lavoro, al piacere e alla morte, ha provocato nello spirito sensibile di Valeria, che ha trasformato anche la cronaca quotidiana in tregenda medioevale di morti, di fantasmi, di dannati. Valeria vede l’inferno dove gli altri credono di vedere la vita moderna; vede i dannati nei cunicoli e nelle Gallerie, che fanno della città sotterranea una immensa topaia. La fantasia di Valeria non è crudele come quella di Grosz; ma le figure nude, che sembrano discendere da un affresco romanico, non sono poi tanto dissimili dai rosei lombrichi, che scavano come le talpe in un dominio senza luce, schiavi davvero di una eterna, biblica fatica.
In queste immagini antiche Valeria ha trovato la sua vera carica emotiva: l’agile tracciato delle linee che evocano e giudicano, commentate dalle macchie suggestive del colore.
L’inferno della metropoli è lo spazio oscuro in cui le figure umane appaiono come fantasmi e in cui i grattacieli, dalle innumerevoli finestre, simili a occhiaie vuote, incombono come simboli di una tetra condizione collettiva, che l’uomo accetta ormai senza pensare alle formiche e ai lombrichi. Valeria, questa volta, ha saputo esprimere il senso dell’orrore con la forza espressiva delle immagini disegnate. Ma, a veder bene, c’è in lei, e profondo, il sentimento della pietà, lo smarrimento angoscioso, di fronte agli aspetti di una realtà, che ha sconvolto e sollecitato la sua fantasia, rinnovandola, nel più maturo impegno di oggi.

Presentazione per la mostra personale alla Galleria del Mulino, Milano, 1963

Eccomi, Valeria.

Il toccante addio a Valeria di Romolo LIBERALE, 2002

Eccomi, Valeria. E per tornare a te con virtù di cuore, e per rifarti nel mio pensiero quel che fosti, ho cavalcato i tuoi cavallucci sbrigliati, ho sfidato le insidie delle tue forbici, ho resistito alle lusinghe dei tuoi cavatappi, ho rotto la tenuta delle tue tenaglie, ho vagato “prigione” nelle tue città prigioniere, sono salito e ridisceso cento e cento volte dalla gran giostra della commedia umana dei tuoi lunapark, ho scardinato la mortale chiusa dei tuoi cancelli, ho contato ad una ad una le tue scale, ho respirato infine l’aria mirifica dei tuoi giardini. E mi sono saziato, per volontà e affetto, di quel che mai si dissecca in quanti ti conobbero. Certo, lo dico per me. Ma sono certo che altri sono con me a richiamarti nella luce dei ricordi perché, come nel canto di Shirin, nessuno può toglierci quel che ci dette il tuo soffio di vita. E ti ripeto, Valeria. Eccomi. Eccomi ad interrogare ancora i tuoi “mille aghi colorati” che mi rimandano sogni e disperazioni degli anni difficili nei quali, finiti i fragori e le innumeri atrocità della guerra, si leva liberatoria la musica delle balere; eccomi a ripercorrere con te aneliti e amarezze di quell’inquieto “sessantotto” nel corso del quale fu alto il tam-tam dei tamburi del riscatto; eccomi a rivivere con te la fiaba del girotondo nello sfavillìo inebriante delle psichedeliche; eccomi a meditare ancora la demarcazione dei tuoi muri e la loro amara metafora che già il saggio Asadi volle definire “grave di sonno nero”; eccomi a salire ancora con te le altitudini dello spirito perché, scala dopo scala, si facesse sempre più chiara in noi la percezione di quanta nequizia regna tra gli uomini quando – ce lo ha detto Stephan Hermlin – “all’albero dei venti viene issata/ la cenere dei giusti non vendicati”;. Eccomi, infine, a quel tuo voler ostinatamente trepidare entro quel magico rapporto tra vita e arte, dove il tuo cammino tra i crucci, le tragedie e le speranze del turbolento Novecento che abbiamo alle spalle, approda ai prati di una placidezza – protervia del destino! – nella quale ti vidi, e lo dissi, come fugace meteora il cui sonno si fa tempo senza tempo tra tutto ciò che è fisso e immoto. E dissi ancora che quello era il tempo in cui nel tuo impegno, e nelle tue costruzioni grafocromatiche più mature, “esplode tutto il sentimento delle cose semplici, della quotidianità, del sereno scorrere del tempo, del recupero di un respiro senza affanno, di una liricità che vede negli alberi, nei giardini, nei fiori, nei colori dell’universo, la ragioni più alte della natura”. Era il sole addormentato che si destava al tuo appetito di vita; e mi sembrava, allora, di cogliere in quelle mie riflessioni il senso del sereno dopo gli uragani, il senso della sosta dopo il galoppo affannoso, il senso della gaiezza dopo le turbolenze che hanno agitato il convulso scorrere del tempo che ti ha visto, come tenero fuscello nella tempesta, mentre cercavi nel segno e nei colori il fervido lessico con cui narrare quel che tra il tuo pensiero e il tuo gesto veniva maturando a conferma che – ricordi il pensiero di Galilei ? – “l’ingegno si fa illustre e chiaro, l’anima si dilata, lo spirito si conforta, l’allegrezza si moltiplica”. Ma tu, proprio nel momento in cui potevano aprirsi le danze dell’allegrezza dopo il lungo fluire di tempi incerti e sofferti, ci hai detto addio. Non abbiamo risposto addio. Ci siamo rifiutati di sanzionare con una parola calda un distacco che ci impedirebbe di reinventarti per il sentiero del nostro affetto. E ci piace agitarci – con la memoria di te e di quanto il tuo gesto d’arte “meglio esprime la passione del tuo animo” – tra quelle che chiamammo “immagini dentro il tempo” per dire i tuoi rovelli tra i fragori dell’ultimo secolo che ormai è nella storia più con nubi e tuoni che non con canti e chiarori. È l’umile poco che possiamo ancora darti libando per noi, e per te, il miele del tuo ricordo per i giorni che ci attendono. E nel fare ciò, ravvivandoti nella nostra memoria e nel nostro affetto, ci è amico e compagno il bel verso di Jorge Luis Borges il quale, tentando di ridisegnare nel suo pensiero la figura di una persona cara, così poetava: “Dio o Forse o Nessuno, io ti chiedo/ la sua inesauribile immagine, non l’oblio”. E lo chiedo, e lo chiediamo, anche per te.


Valeria ed io. Noi due - gemelle- un binomio. Questo sito è dedicato alle nostre esperienze artistiche parallele e ai legami fra queste esperienze. Siamo cresciute insieme, abbiamo scritto insieme la nostra vita per tutta l’adolescenza e nell'età adulta. Sempre amiche, sempre solidali.

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